Semper Mater
Sin da bambina ho seguito, passo dopo passo, il percorso delle mie nonne, delle mie zie e di mia madre. Le osservavo addentrandomi sempre di più nell’essere donna.
Con il passare degli anni ho capito di aver registrato e impresso nel mio inconscio, che gradualmente affiorava fino a rendersi intellegibile, gioie, dolori, vincoli e responsabilità di quel mondo femminile a cui appartengo.
Quando ho iniziato a scattare le prime foto di questo progetto non ero pienamente consapevole di quale percorso avessi imboccato, sapevo soltanto che la femminilità era il nucleo informe che volevo portare alla luce e che una cava sarebbe stato l’unico luogo nel quale avrei potuto scovare questa massa primigenia.
Non so se le mie fotografie corrispondano alle tappe del percorso cui accennavo, ognuna rappresenta la condensazione (o il grumo?) di una condizione specifica della femminilità; eppure c’è un inizio, un ingresso varcato alla ricerca di una maggiore consapevolezza. Un portale che marca il confine tra il mondo che avevo sempre considerato natale (e che ancora cerca di trattenermi) e quello inesplorato cui sto tornando.
Ecco allora il mantello rosso inteso sia come fardello da portare sulle spalle, che solco di una strada lastricata col sangue, non il sangue della violenza maschile, ma quello vitale e passionale della donna, che comprende attraverso l’esperienza diretta ciò che aveva già appreso osservando le donne che l’hanno preceduta.
Inizia da qui una riflessione personale su cosa significhi essere donna, soprattutto su quali siano le aspettative e gli obblighi che la donna per prima si autoimpone. L’obbligo di essere madre innanzitutto. Non solo nel senso meraviglioso di creatrice di vita, ma anche di ruolo sociale che confina a mansioni, spazi e aspirazioni limitanti.
La maternità ha molteplici forme, può essere un grembo smisurato che offre riparo alle vite che darà alla luce; può essere l’angosciosa ed eterna attesa di sapere se quelle vite (dalle quali una madre non si staccherà mai completamente) andranno incontro ad un destino favorevole o avverso; può essere un disorientato percorso a ritroso alla ricerca di una perfezione millantata e mai realmente esistita; può essere il peso di una responsabilità che non si è in grado o non si è voluto accettare, ma una madre senza l’istinto materno rimane il più grande tabù di una società patriarcale che persino le donne, per quanto sollecite nel prestare aiuto, non mettono in discussione.
In un contesto in cui la donna non è in grado di decidere o persino riconoscere il proprio ruolo, l’unica possibilità rimastale è di adattare e plasmare la propria identità in base alle varie condizioni che deve affrontare, indossando di volta in volta specifiche personalità come fossero tante maschere. Maschere che non servono a fingere di essere madre, lavoratrice, amante o custode del focolare, ma che aiutano a proteggerci dall’incertezza di cosa potremmo e vorremmo essere.
Maschere che tuttavia limitano le nostre potenzialità, che segnano la frattura di un’identità unica e consapevole che solamente garantirebbe l’indipendenza originaria del nostro spirito.
Come possiamo allora riappropriarci della nostra identità? Come possiamo interrompere la rincorsa impossibile ad un ruolo che non ci appartiene, senza rinunciare a quei diritti che abbiamo raggiunto e che ancora ci aspettano?
Forse creando una connessione proprio con colei che per prima è stata Madre, la Terra. Ristabilendo anzi un legame profondo con le nostre origini, i nostri corpi come radici che attingono da un sapere viscerale, ignoto e familiare allo stesso tempo.
Grazie a questo dialogo sarà forse possibile intraprendere un percorso nuovo, libero da strutture artificiali o autoimposte, e quelli che oggi ci appaiono come i limiti della femminilità e le conferme di un genere “debole”, torneranno ad essere orme e manifestazioni di un potere che genera vita. Ci ricorderemo che la fertilità non è una finestra temporale entro la quale adempiere a un compito, ma un dono da proteggere e condividere, sempre.