Hic sunt Leones
“Qui stanno i leoni”, questa locuzione latina serviva ad indicare nelle mappe antiche luoghi sconosciuti ed inesplorati nei quali si presupponeva la presenza di belve feroci e mitologiche, tali per cui era sconsigliato anche solo avventurarvici.
Adesso Google Maps ha reso tutto più semplice e oggigiorno, al posto di uno di quegli ammonimenti topografici, appare solo la dicitura “Istituto Palazzolo per Istituti Pii”.
Si tratta di una Residenza Sanitaria Disabili con sede a Rosà (VI), gestita con la stessa dedizione dalla Congregazione Suore delle Poverelle e da personale laico altamente specializzato, che in oltre 90 anni di attività ha ospitato prevalentemente donne con forti handicap fisici e psichici, ma anche orfane e suore anziane.
Ho scoperto questo luogo nel 2012, durante l’annuale Open Day che ha come scopo quello di farne scoprire la realtà a chi vive all’esterno. Sentii subito l’urgenza di approfondire quell’incontro e possibilmente descriverlo attraverso la fotografia, ma capii anche che una documentazione “empatica” non sarebbe stata possibile se fossi stata percepita come un occhio invisibile o peggio ancora estraneo.
Decisi allora, dopo aver spiegato le mie intenzioni alla coordinatrice dell’istituto, di entrarvi senza macchina fotografica, trascorrendo quattro mesi con utenti e educatrici per conoscerci ed entrare in confidenza. Successivamente iniziai un reportage fotografico che descriveva la quotidianità delle ragazze ospiti, fatta di pomeriggi trascorsi alla TV, laboratori artistici, attività motorie e piccole gite. Ho scattato in questo modo per un anno e mezzo, poi sono andata in crisi.
Durante quel periodo, alcune delle ragazze che avevo fotografato erano nel frattempo morte e mi sono accorta che i miei scatti avrebbero testimoniato solo la loro presenza all’interno dell’istituto, non la loro essenza. Allora capii che invece io volevo raccontare i mondi interiori dentro i quali ognuna di loro viveva.
Ho buttato tutto e ricominciato con un atteggiamento differente, parlando con le utenti (chi in grado) e relative educatrici per cercare di approfondire i desideri, i sogni e le ossessioni delle ragazze ospiti. Sulla base di questi elementi ho “immaginato” delle scene che potessero interpretare in una singola immagine le loro dimensioni più intime.
L’aspetto fondamentale comunque era che le fotografie derivanti non fossero semplici “messe in scena” in cui plasmavo persone non autosufficienti secondo la mia personale visione, ma che le utenti fossero protagoniste attive dell’esperienza fotografica.
Ho iniziato così a ricercare per ogni singola composizione oggetti che fossero di grande valenza simbolica per le utenti, assieme ad alcune delle quali abbiamo lavorato anche alla realizzazione delle scenografie.
Da questo lavoro hanno avuto origine immagini a colori e colorate, nelle quali i soggetti spesso sorridono e offrono orgogliosi all’obiettivo cimeli di mondi magici a cui pochi è permesso accedere.
Forse questa visione potrà sembrare ad alcuni irrispettosa di un ambiente che siamo abituati a vedere con il bianco e nero del dolore, dell’angoscia e della disperazione, eppure (almeno in questo caso) se avessi mantenuto anch’io questa impostazione avrei mancato di rispetto a tante persone che quotidianamente dedicano anima e corpo non a far sì che persone disabili sopravvivano fino al giorno seguente, ma aiutandole a vivere una vita dignitosa e felice entro i limiti posti da traumi e malattie insondabili.
Mancherei di rispetto infine a quelle stesse persone che, pur vivendo in prima persona le conseguenze di tali handicap, in questi tre anni mi hanno insegnato ad accettare il dolore come una tappa e a cogliere la gioia anche negli anfratti più segreti dell’anima.